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Chef Rubio addenta la cucina di strada marchigiana: “C’è tutto nella vostra terra!”

in Giornalista e dintorni/Mangiare e bere da

Fu mio figlio a segnalarmi Chef Rubio, un personaggio ad alto gradimento televisivo che si è imposto grazie ad un pubblico giovane ed alternativo sul canale DMAX. Non ho avuto tempo per contestare la sua scelta, mi sono ritrovato subito anche io nel club della “Rubiomania”. Simpatico, diretto, quasi un fumetto di quelli belli ed eroici che si materializza. Del resto i numeri dei social parlano chiaro sulla sua reale efficacia: 380mila followers su Facebook, 60mila su Twitter e oltre 50mila su Instagram. Insomma, un personaggio non creato dalla rete ma spontaneamente molto amato dal web. Chef Rubio si è aggiudicato nel 2014 il titolo di “Migliore Chef” ai Macchianera Italian Awards 2014 e anche i Tweet Award di Bologna. Nel 2015 è nell’olimpo della categoria cuochi per il premio “Italia a Tavola”. Ora Gabriele Rubini, questo il suo vero nome, sta per sbarcare con le storie del viaggio culinario, il terzo per la precisione, all’insegna dello street food con “Unti e Bisunti”. Sarà in prima tv esclusiva su DMAX dall’8 settembre, ogni martedì alle 21.10. Chef Rubio infatti è il rappresentante assoluto della cucina di strada, quella erroneamente considerata “sporca e cattiva”. Insomma, il mondo opposto dei ristoranti stellati. Costantemente alla ricerca e alla riqualificazione di piatti e ricette della tradizione di sempre, attraverso chioschetti e mercati rionali. Un’esplorazione gastronomica che lo vedrà questa volta anche protagonista nelle Marche, oltre che da quest’anno con puntate dedicate a Spagna, Germania e Francia. Lo intercettiamo telefonicamente per una di quelle interviste che inevitabilmente scivola nella piacevole chiacchierata fra amici.

Con “Unti e Bisunti” continui a raccontare ancora i piatti e la gente di strada dell’Italia e stavolta anche dell’Europa. Se con il cibo si identificano i territori e la tradizioni, la gente di strada è davvero così diversa da città a città e da nazione a nazione?

<<Il cibo stesso è identico nell’abitudine, ma sono gli interpreti che sono diversi. A causa del periodo sociale che vivono e soprattutto nel modo in cui il singolo si rapporta con l’elemento. Il cibo è così sempre versatile, mai noioso e si può parlare di lui senza mai arrivare ad una vera conclusione. Sono le persone che esprimono lo stesso ingrediente in maniera totalmente diversa. E’ un linguaggio della gente che mi piace>>.

Sei venuto nelle Marche. Siamo curiosi di avere delle tue impressioni. E meglio ancora se hai dei ricordi particolari della nostra terra e della nostra gente.

<<Non posso anticipare nulla della puntata ma posso dirvi che dal mare alla pianura, dalle colline alle montagne, le Marche ci hanno regalato un sacco di piatti di cui parlare. Abbiamo provato a fare un quadro a tutto tondo del panorama marchigiano, che parte dal crudo e dal bollito per arrivare all’arrosto e al fritto, cercando di essere il più possibile esaustivi nel raccontare un popolo e una terra interessante per la varietà offerta. Se ti dico che mi piace rischio di essere un ruffiano ma non è così. Siete una regione completa, avete tutto>>.

Chef Rubio in tv e Gabriele Rubini nel privato. Sicuramente riescono a convivere nella vita quotidiana. Ma non accade a volte, magari in casi eccezionali, di voler invertire i ruoli?  

<<Sono la medesima persona. A volte mi è capitato anche in interviste e quant’altro di poter far parlare Gabriele, non solo Chef Rubio. Siamo la stessa cosa: semplicemente Chef Rubio quando deve far passare meglio un messaggio a tutti usa l’escamotage della comicità, del cinismo e della strafottenza. Vie traverse per attirare l’attenzione>>.

Penso che tu sia consapevole di essere un simbolo, soprattutto per le nuove generazioni. I ragazzi ti vogliono bene e ti guardano con ammirazione. Non dico che rischi di avere delle responsabilità ma rappresenti ed esalti la periferia. In fondo trasmetti quel sano gusto della sfida e l’ironia dello sfottò. Cosa ti sentiresti di consigliare a loro per farli vivere meglio in una società che tanto giusta non è?

<<Che devono studiare, viaggiare, leggere. Solo così possono difendersi da un mondo che cerca di tendere sempre al ribasso, per far si che tutto sia sotto controllo e a vantaggio di quelli che noi chiamiamo (con accezione troppo pomposa) i potenti. Solo così i giovani avranno delle armi per combattere e per ritagliarsi un angolo di serenità>>.

Andiamo, solo per un po’ con leggerezza, sul pettegolezzo. Chef Rubio che piace alle donne è un fatto appurato. Merito dei tatuaggi, dell’atteggiamento spavaldo o dello sguardo in fondo un po’ avventuroso e romantico che hai? Insomma ti senti un oggetto del desiderio o piuttosto un uomo che non deve chiedere mai ?

<<Piaccio alle donne? Me lo dite ogni volta, ma è una questione che mi interessa fino ad un certo punto. Piaccio molto anche agli uomini ma non è questo l’obiettivo per cui mi metto in discussione. Mi fa piacere ma finisce nel momento stesso in cui me lo fate notare. Credo che l’interesse vari ogni volta da persona a persona. Può colpire la capacità di far ridere, la fisicità, il tatuaggio o quello che vuoi. Ogni cosa può colpire in maniera differente. Non siamo tutti attratti dalla stessa cosa. E questo è un bene>>.

Apprezzato nel rugby, chef vincente. Se ci fosse un sogno da realizzare quale sceglieresti? Protagonista in un film, cantante in una band di hard rock, dentro un’astronave verso Kepler 452b, il pianeta della nuova galassia che assomiglia alla Terra… Oppure scegli tu!  

<<Fare fotografie, recitazione o scrivere sono caratteristiche che posso coltivare e che sto coltivando. Sono assolutamente nelle mie corde. Magari cantare una canzone non più sotto la doccia ma di fronte a 100mila persone è un’altra cosa. Quindi direi che vorrei essere una rock star d’altri tempi>>.

Noi di Tyche ci stiamo impegnando per diventare influenti nei concerti quindi ti facciamo esibire noi!

<<Beh allora vi chiedo di costruirmi una macchina del tempo, così mi portate a vedere Bob Marley o Freddie Mercury a Wembley. Mi raccomando ricordati pure gli Ac/Dc in Australia>>.

Mensilmente facciamo filosofeggiare i nostri intervistati su una parola, questa volta tocca a TYCHE. Ti aiuto. Nella mitologia greca era la personificazione della fortuna. E allora la fortuna che ti fa venire in mente?  

<<La fortuna premia gli audaci, è cieca e “a chi tocca nun se ‘ngrugna”. Però tutto questo è affascinante. C’è chi si danna per arrivare ad un risultato e poi non ci arriva mai, chi ci arriva all’ultimo, chi nel momento più inaspettato. E c’è chi invece con il minimo sforzo fa jackpot. È il fascino di quello che viene chiamato Tyche>>.

Ultima domanda a proposito della parola TYCHE, quindi dedicata ai nostri lettori, chiediamo a Chef Rubio: che piatto ti viene in mente di dedicarci e ci offriresti da mangiare?

<<Non ho dubbi, vi preparerei una ricetta orientale. Un biscotto della fortuna fatto magari in casa, con una cialda doc a sorpresa al posto del bigliettino. In base al gusto del lettore>>.

Kruger Agostinelli

Non è estate senza verdure gratinate. Una ricetta semplice e sfiziosa

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D’estate in Italia esplodono pomodori, zucchine, melanzane e peperoni. Gli orti, generosi, aspettano solo di essere alleggeriti e raccolti. Cucinate insieme nella classica ratatouille sono ottime ma se accendete la griglia o il forno…e grattugiate, in modo grossolano, la mollica di pane secco che sta “oziando” nel cesto, potete preparare una ricetta unica e a tutto pasto. La crosta destinatela a qualcos’altro. Ma non alle verdure gratinate. La crosta, grattugiata fine, sarà ottima, appena scaldata, per saltare in padella formati di pasta vari. Usata al posto del più ricco parmigiano. Sembra facile fare le verdure gratinate? Il forno va tenuto caldo da quando cominciate a lavorarle. La mollica di pane va condita con aglio, a chi piace, prezzemolo, a chi piace (tanto il prezzemolo non sa di niente) erba cipollina (che sostituisce l’aglio), origano, menta, basilico e tutto quanto il vostro orto/terrazzo vi offre. Poco sale e olio evo. Tanto olio. La mollica deve risultare ben separata e non “ammallopparsi” come spesso accade alle verdure gratinate che compriamo al supermercato. Ecco, quelle sono proprio l’opposto di quelle che dico io.

Armatevi di carta da forno, tagliate le verdure a metà, se sono troppo grandi anche a tre, quattro strati, non togliete nulla, né acqua dai pomodori né semi, “mollicatele” senza pressione, senza fare quella sorta di mattonella unta, quella appunto dei supermercati, infornate a 160/180 gradi coprendo con la carta da forno. Aspettate di “sentirle” con la forchetta. Quando la forchetta si infilza senza difficoltà, togliete la carta da forno sopra e lasciate gratinare per un po’. Il vostro po’. Vi piacciono belle dorate? Vi piacciono quasi croccanti? Oppure appena bionde? Tanto la base è cotta.

Portatele a tavola subito calde o domani fredde. Sono buone sempre e fanno anche piatto unico con fette di pane appena scaldato, una bruschetta poco aggressiva, con verdure varie in insalata e vino bianco fresco.

Bella l’estate!

Carla Latini

La ricetta della Crescia, la focaccia Made in Marche

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Crescia in marchigiano vuol dire pizza. Più che una pizza è una focaccia. La Crescia nelle campagne veniva fatta con la pasta lievitata del pane che avanzava. Cotta nel forno a legna, prima del pane. In questo modo la Crescia faceva da ‘cartina tornasole’ per verificare la temperatura del forno. Piccolina, rotonda e alta con le fossette sulla superficie lasciate dai polpastrelli. Fossette strategiche per catturare il condimento. In origine era condita con olio e grani di sale grosso. In seguito fu aggiunto il rosmarino. L’olio veniva spesso sostituito con il lardo o addirittura con lo strutto spalmato. Strutto e rosmarino fanno la Crescia più buona del mondo! Usata come antico cibo di strada tagliata a metà e farcita. Con le foje o con i salumi. Possiamo prepararla facilmente a casa.

Se siete bravi e vi fate già il pane sono pochi i consigli che posso darvi: che sia alta almeno tre dita, che le fossette siano profonde e che il forno non sia ‘a palla’! La nostra Crescia deve rimanere pallida. Non deve abbrustolire e diventare troppo croccante. La vera Crescia è morbida e leggermente gommosa. Se non siete bravi, fate i furbi e chiedete al vostro panettiere di fiducia un po’ di pasta lievitata per fare del pane bianco. Conditela solo con grani di sale e un filo di olio extra vergine marchigiano. La Crescia è buona calda ma anche fredda.

Per le foje procedete così: ugual misura di spinaci, bietole, cicoria, cime di rape e erbe spontanee di campo. Potete comprarla solo qui nelle Marche, si chiama ‘cucina’. Se andate in un mercato rionale marchigiano e chiedete la verdura mista di campagna, quella che si raccoglie e non si coltiva, vi daranno la ‘cucina’. La ‘cucina’ deve essere ‘capata’ con molta cura e sciacquata a lungo. Cacigna, papole, grugnetti, alcuni dei nomi in dialetto di queste foglie selvagge, crescono molto vicino alla terra e ne sono praticamente intrise. Una volta ben pulite tutte queste verdure miste vanno sbollentate, appena, e ripassate nella padella di ferro con olio extra vergine, due spicchi di aglio in camicia ed un peperoncino rosso. I dosaggi di olio, aglio e peperoncino sono a piacere. Due varianti golose di queste foje sono la prima con l’aggiunta di una patata lessa schiacciata, la seconda con l’aggiunta di alcune fave fresche, prima lessate.

Tagliate a metà la vostra Crescia, farcitela con le foje trascinate e lasciatela a riposo qualche minuto. Se la Crescia nell’interno dove poggia la verdura è diventata verde è pronta per essere mangiata. Con i salumi vale lo stesso procedimento. Salumi a piacere: salame locale, prosciutto casereccio, lonza e lonzino affettati sottili e usati come farcia. Anche con i salumi la Crescia va fatta riposare un po’. Di solito non si mettono salumi e verdure insieme. Le verdure inumidiscono troppo il salume e il loro sapore piccante ne nasconde il sapore.

Esiste anche la versione sfogliata, molto più diffusa nella provincia di Pesaro Urbino. Si avvicina, come aspetto, alla piada romagnola. Ma è più spessa. Cotta sulla piastra rimane leggermente colorita in superficie. La tradizione la vede golosamente condita come la sorella maggiore di cui vi ho raccontato sopra. Contagiati dal suo aspetto più ‘piada che crescia’ potete osare formaggi morbidi locali in aggiunta alle verdure e ai salumi. Oppure anche misticanza fresca.

Questa stuzzicante e semplice ricetta marchigiana può essere un importante antipasto, un tutto pasto, una merenda o il centro tavola di un tipico pranzo marchigiano. Senza farcia la Crescia sostituisce molto egregiamente il pane bianco.

Carla Latini

 

Gnocchi del Vescovo e spaghetti in porchetta, alla scoperta di chef Paciaroni

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Non siamo al centro di Parigi, né Paolo Paciaroni è una stella italiana in terra francese, anche se potrebbe esserlo. Siamo a Tolentino sulla Nazionale. Trentadue coperti in un ambiente bianco e rosso. Piccolo e raccolto. Sono stata da lui. Sorride sempre Paolo. Si sveglia felice ogni mattina perché fa la cosa che ama di più al mondo: cucinare. Mi confessa che, dopo tutte le avversità che ha superato, ogni giorno è il giorno più bello. La notte è solo una perdita di tempo. In cucina con Paolo c’è mamma Giuseppina. Una giovane signora che tira la sfoglia e fa gli gnocchi quasi tutti giorni. In sala c’è la sorella Laura. Una bella bionda che sorride con gli stessi occhi cerulei del fratello.

parete roberta schiraAlle pareti, le uniche due perché le altre sono vetrine che danno sulla strada ben protette da occhi indiscreti, ci sono tre frasi di altrettanti celebri cuochi: Beck, Bourdin e Marchesi. Più una lunga frase di Roberta Schira, una delle scrittrici più cult del momento, che sintetizza il lavoro del cuoco. In fondo a questa pagina potrete leggerla. Tutte le proposte a menu mi intrigano. Vi racconto quelle che assaggio.

Ci sono antipasti semplici come crostone di pane grigliato con caprese o più elaborati come insalata di riso, pollo e bacche di goji (finalmente ne capisco il senso dell’uso). Sui primi Paolo è più aggressivo e propone spaghetti in porchetta con pomodoro verde e finocchi e gnocchi del Vescovo, un piatto che non toglie mai dalla carta (mamma Giuseppina li fa due, tre volte alla settimana). Se è stagione (sono fortunata, proprio questa), sopra ai soffici gnocchi, conditi con crema di latte, tartufo e salsiccia, c’è una nuvola di spaghetti di zucchine fritte. Paolo ride quando gli dico che i nomi che ha dato ai suoi piatti sono “di poche parole”. Parlano poco. Però “cantano”. Fra i secondi mi faccio conquistare da straccetti di vitello con limoni di Sorrento e dal petto di pollo alla griglia con pinoli sabbiati e rucola. Mi torna in mente uno dei miei ultimi viaggi a Parigi. Da una “appena spuntata” stella Michelin italiana ho mangiato, appunto, piatti con nomi brevi e semplici, completi e unici negli abbinamenti di sapori, nelle dosi e nelle cotture. Come chez Paolo Restaurant. <<Non vuoi assaggiare un pesce? La frittura l’ho presa stamattina al porto di Ancona>>, mi dice guardandomi con gli occhi, celesti, spalancati. Paolo sembra uscito da un cartone animato di Walt Disney. Per fortuna non sono da sola e divido volentieri con i miei amici. Prendiamo frittura mista dell’Adriatico e magnifiche patate fritte a mano. Sì, nel menu c’è proprio scritto fritte a mano. Commovente. Una frittura che vola soffice come un’altra che adoro, quella di Marcello a Portonovo. lla fine, prima di “dessertare” la tavola, Paolo rivela la sua anima pasticceria. I miei amici si dividono fra Africa e Sensazioni. Io mi limito al cestino croccante di frutta fresca e crema pasticcera. Inizia, fra noi, un gaudente scambio di cucchiaini e dolci bocconi. Africa (bavarese di vaniglia del Madagascar, biscotto al cacao forestero, cremino al pistacchio e mango) e Sensazioni (semifreddo ai frutti rossi, pan di spagna all’olio extra vergine, erbette, salsa al caramello, meringhe e frolla) mi distraggono dal mio, sia pur delizioso, cestino croccante.

La carta dei vini è marchigiana e internazionale. Abbiamo scelto il Verdicchio di Andrea Felici e la Lacrima, il Bastaro, di Tenuta San Marcello. Perfetta con il fritto. Difficile congedarsi da questa famiglia che contagia i clienti con la sua gioia di vivere che sprizza da ogni piatto. Baci e abbracci. Tanto ci rivediamo presto.

La Famiglia Paciaroni vi aspetta in via Nazionale 65 a Tolentino. Telefonare prima allo 0733 972784 è meglio. Preparatevi ai sorrisi!

Carla Latini

“Li maccherò de lo vatte”, ricordi bucolici e ricette

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Chi si ricorda dei “maccherò de lo vatte”, ricetta tipica marchigiana, rituale quasi scaramantico che auspicava un buon raccolto di grano? Non si fanno quasi più. Se non in occasioni di ricorrenze, simulazioni storiche, sagre paesane e rimembranze annuali. Oggi la mietitrebbia con l’aria condizionata schizza via come il vento, perché un altro campo l’aspetta. Non c’è tempo per due “maccherò”. I vecchi ricordano “lo vatte” (cioè la mietitura e la trebbiatura) con nostalgia e tenerezza, nonostante fosse un lavoro molto faticoso. I vicini prestavano il loro aiuto a buon rendere, e ilmomento della pausa per il pranzo diventava una festa. Le donne più anziane preparavano il sugo fin dalla mattina presto: in un grande “callerò” facevano soffriggere un battuto di grasso e magro insieme a carota, sedano e cipolla ridotti quasi in poltiglia. Un po’ per volta, a seconda del tempo di cottura di ogni pezzo, univano le rigaglie e i pezzi di pollo, di papera o di oca, aggiustavano di sale e pepe, coprivano di acqua e mescolavano insieme a 4 cucchiai densi di conserva (la conserva era il rimedio di tutti i mali per le nostre nonne!). Il sugo del batte bolliva per più di due ore (e ci credo con tutta quella carne al fuoco!). Il profumo si spandeva per la casa e per l’aia. Qualche donna metteva la maggiorana, qualcun’altra l’alloro. Tutte le carni venivano poi tagliate a piccoli pezzi con il coltello. I “maccherò”, o “moccolotti”, si cucinavo, a volte, direttamente nel sugo bollente, mescolati a lungo, ingolositi da diverse manciate di pecorino grattugiato e portati nei campi dentro i “reali” che erano dei contenitori usati per questa occasione. I mietitori poggiavano la falce, smettevano di legare i covoni e gradivano molto volentieri l’offerta delle donne più anziane. Fermate questa immagine.

Il grasso incorporato dal sugo rendeva questo piatto denso e nutriente. Una botta calorica importante per portare a termine il lavoro della giornata. Che non era solo una. Per mietere un ettaro di grano ci volevano dalle 10 alle 15 persone al giorno. Ed ogni giorno i “macchero de lo vatte” arrivavano puntuali a mezzogiorno.

Se il contadino ospitante era un “contadì grosso”, dopo i “maccherò” c’era il tradizionale coniglio in potacchio. Che cuoceva a fianco de “lo callerò” del sugo, nella sua padella di rame. Il coniglio tagliato a piccoli pezzi, insaporito precedentemente con aromi e vino bianco per eliminare qualsiasi odore di bestia, veniva prima leggermente rosolato in padella con olio o strutto, aglio e rosmarino. Sfumato con il vino bianco e coperto di acqua continuava lentamente la sua cottura. Le donne lo giravano poco, accertandosi solo che fosse tutto coperto di acqua e vino e bollisse piano. A cottura quasi ultimata, un veloce rialzo di fiamma e due cucchiai di conserva, (eccola ancora) gli regalavano un gradevole colore dorato. Sale, pepe e rosmarino fresco per concludere. Questa ricetta è molto attuale e vicina all’idea di leggero e digeribile (evitando lo strutto e le cotture troppo lunghe). Potete farla a casa senza difficoltà. A meno che il coniglio non vi faccia inorridire. Allora potete provare con il pollo. Oppure con una lombata di maiale.

Se “lo contadì era più grosso”, al posto del misero coniglio c’erano oche o papere al forno, cresce, “foje strascicate” e pizze dolci. Un trebbiano misto a malvasia, dell’anno prima, annaffiava il conviviale.

Ma c’era anche la cena. All’imbrunire, i contadini si riunivano sull’aia, finivano gli avanzi (che poi non erano avanzi perché le donne calcolavano le dosi giuste per tutti), bevevano il vino vecchio che cominciava a sapere un po’ di aceto, prendevano a morsi fresche fette di melone e di anguria per pulirsi la bocca, baciavano (se ci riuscivano) la bella di turno che avevano tampinato tutto il giorno fra una spiga e l’altra, e se era l’ultima sera di lavoro la fisarmonica suonava fino a tardi e i contadini ballando scacciavano via stanchezza, malinconia e “maccherò”.

Una domenica, quando siete dell’umore giusto, lanciatevi in un feedback gastronomico agricolo marchigiano e, per prima cosa, non fatevi convincere ad alleggerire il ragù, poi mettete al forno un’oca o una papera con alloro, salvia, rosmarino, aglio e vino bianco, strascinate a parte delle verdure miste, portate a tavola delle cresce tagliate a dadoni e chiudete in dolcezza con una pizza di uvetta e anisetta. Poi, o andate a finire di mietere il grano, o andate a fare una corsetta. Oppure, cosa più auspicabile, colti dall’abbiocco post-prandiale, prendete la strada del divano o, ancor meglio, del letto.

Carla Latini

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