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La ricetta della Crescia, la focaccia Made in Marche

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Crescia in marchigiano vuol dire pizza. Più che una pizza è una focaccia. La Crescia nelle campagne veniva fatta con la pasta lievitata del pane che avanzava. Cotta nel forno a legna, prima del pane. In questo modo la Crescia faceva da ‘cartina tornasole’ per verificare la temperatura del forno. Piccolina, rotonda e alta con le fossette sulla superficie lasciate dai polpastrelli. Fossette strategiche per catturare il condimento. In origine era condita con olio e grani di sale grosso. In seguito fu aggiunto il rosmarino. L’olio veniva spesso sostituito con il lardo o addirittura con lo strutto spalmato. Strutto e rosmarino fanno la Crescia più buona del mondo! Usata come antico cibo di strada tagliata a metà e farcita. Con le foje o con i salumi. Possiamo prepararla facilmente a casa.

Se siete bravi e vi fate già il pane sono pochi i consigli che posso darvi: che sia alta almeno tre dita, che le fossette siano profonde e che il forno non sia ‘a palla’! La nostra Crescia deve rimanere pallida. Non deve abbrustolire e diventare troppo croccante. La vera Crescia è morbida e leggermente gommosa. Se non siete bravi, fate i furbi e chiedete al vostro panettiere di fiducia un po’ di pasta lievitata per fare del pane bianco. Conditela solo con grani di sale e un filo di olio extra vergine marchigiano. La Crescia è buona calda ma anche fredda.

Per le foje procedete così: ugual misura di spinaci, bietole, cicoria, cime di rape e erbe spontanee di campo. Potete comprarla solo qui nelle Marche, si chiama ‘cucina’. Se andate in un mercato rionale marchigiano e chiedete la verdura mista di campagna, quella che si raccoglie e non si coltiva, vi daranno la ‘cucina’. La ‘cucina’ deve essere ‘capata’ con molta cura e sciacquata a lungo. Cacigna, papole, grugnetti, alcuni dei nomi in dialetto di queste foglie selvagge, crescono molto vicino alla terra e ne sono praticamente intrise. Una volta ben pulite tutte queste verdure miste vanno sbollentate, appena, e ripassate nella padella di ferro con olio extra vergine, due spicchi di aglio in camicia ed un peperoncino rosso. I dosaggi di olio, aglio e peperoncino sono a piacere. Due varianti golose di queste foje sono la prima con l’aggiunta di una patata lessa schiacciata, la seconda con l’aggiunta di alcune fave fresche, prima lessate.

Tagliate a metà la vostra Crescia, farcitela con le foje trascinate e lasciatela a riposo qualche minuto. Se la Crescia nell’interno dove poggia la verdura è diventata verde è pronta per essere mangiata. Con i salumi vale lo stesso procedimento. Salumi a piacere: salame locale, prosciutto casereccio, lonza e lonzino affettati sottili e usati come farcia. Anche con i salumi la Crescia va fatta riposare un po’. Di solito non si mettono salumi e verdure insieme. Le verdure inumidiscono troppo il salume e il loro sapore piccante ne nasconde il sapore.

Esiste anche la versione sfogliata, molto più diffusa nella provincia di Pesaro Urbino. Si avvicina, come aspetto, alla piada romagnola. Ma è più spessa. Cotta sulla piastra rimane leggermente colorita in superficie. La tradizione la vede golosamente condita come la sorella maggiore di cui vi ho raccontato sopra. Contagiati dal suo aspetto più ‘piada che crescia’ potete osare formaggi morbidi locali in aggiunta alle verdure e ai salumi. Oppure anche misticanza fresca.

Questa stuzzicante e semplice ricetta marchigiana può essere un importante antipasto, un tutto pasto, una merenda o il centro tavola di un tipico pranzo marchigiano. Senza farcia la Crescia sostituisce molto egregiamente il pane bianco.

Carla Latini

 

“Li maccherò de lo vatte”, ricordi bucolici e ricette

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Chi si ricorda dei “maccherò de lo vatte”, ricetta tipica marchigiana, rituale quasi scaramantico che auspicava un buon raccolto di grano? Non si fanno quasi più. Se non in occasioni di ricorrenze, simulazioni storiche, sagre paesane e rimembranze annuali. Oggi la mietitrebbia con l’aria condizionata schizza via come il vento, perché un altro campo l’aspetta. Non c’è tempo per due “maccherò”. I vecchi ricordano “lo vatte” (cioè la mietitura e la trebbiatura) con nostalgia e tenerezza, nonostante fosse un lavoro molto faticoso. I vicini prestavano il loro aiuto a buon rendere, e ilmomento della pausa per il pranzo diventava una festa. Le donne più anziane preparavano il sugo fin dalla mattina presto: in un grande “callerò” facevano soffriggere un battuto di grasso e magro insieme a carota, sedano e cipolla ridotti quasi in poltiglia. Un po’ per volta, a seconda del tempo di cottura di ogni pezzo, univano le rigaglie e i pezzi di pollo, di papera o di oca, aggiustavano di sale e pepe, coprivano di acqua e mescolavano insieme a 4 cucchiai densi di conserva (la conserva era il rimedio di tutti i mali per le nostre nonne!). Il sugo del batte bolliva per più di due ore (e ci credo con tutta quella carne al fuoco!). Il profumo si spandeva per la casa e per l’aia. Qualche donna metteva la maggiorana, qualcun’altra l’alloro. Tutte le carni venivano poi tagliate a piccoli pezzi con il coltello. I “maccherò”, o “moccolotti”, si cucinavo, a volte, direttamente nel sugo bollente, mescolati a lungo, ingolositi da diverse manciate di pecorino grattugiato e portati nei campi dentro i “reali” che erano dei contenitori usati per questa occasione. I mietitori poggiavano la falce, smettevano di legare i covoni e gradivano molto volentieri l’offerta delle donne più anziane. Fermate questa immagine.

Il grasso incorporato dal sugo rendeva questo piatto denso e nutriente. Una botta calorica importante per portare a termine il lavoro della giornata. Che non era solo una. Per mietere un ettaro di grano ci volevano dalle 10 alle 15 persone al giorno. Ed ogni giorno i “macchero de lo vatte” arrivavano puntuali a mezzogiorno.

Se il contadino ospitante era un “contadì grosso”, dopo i “maccherò” c’era il tradizionale coniglio in potacchio. Che cuoceva a fianco de “lo callerò” del sugo, nella sua padella di rame. Il coniglio tagliato a piccoli pezzi, insaporito precedentemente con aromi e vino bianco per eliminare qualsiasi odore di bestia, veniva prima leggermente rosolato in padella con olio o strutto, aglio e rosmarino. Sfumato con il vino bianco e coperto di acqua continuava lentamente la sua cottura. Le donne lo giravano poco, accertandosi solo che fosse tutto coperto di acqua e vino e bollisse piano. A cottura quasi ultimata, un veloce rialzo di fiamma e due cucchiai di conserva, (eccola ancora) gli regalavano un gradevole colore dorato. Sale, pepe e rosmarino fresco per concludere. Questa ricetta è molto attuale e vicina all’idea di leggero e digeribile (evitando lo strutto e le cotture troppo lunghe). Potete farla a casa senza difficoltà. A meno che il coniglio non vi faccia inorridire. Allora potete provare con il pollo. Oppure con una lombata di maiale.

Se “lo contadì era più grosso”, al posto del misero coniglio c’erano oche o papere al forno, cresce, “foje strascicate” e pizze dolci. Un trebbiano misto a malvasia, dell’anno prima, annaffiava il conviviale.

Ma c’era anche la cena. All’imbrunire, i contadini si riunivano sull’aia, finivano gli avanzi (che poi non erano avanzi perché le donne calcolavano le dosi giuste per tutti), bevevano il vino vecchio che cominciava a sapere un po’ di aceto, prendevano a morsi fresche fette di melone e di anguria per pulirsi la bocca, baciavano (se ci riuscivano) la bella di turno che avevano tampinato tutto il giorno fra una spiga e l’altra, e se era l’ultima sera di lavoro la fisarmonica suonava fino a tardi e i contadini ballando scacciavano via stanchezza, malinconia e “maccherò”.

Una domenica, quando siete dell’umore giusto, lanciatevi in un feedback gastronomico agricolo marchigiano e, per prima cosa, non fatevi convincere ad alleggerire il ragù, poi mettete al forno un’oca o una papera con alloro, salvia, rosmarino, aglio e vino bianco, strascinate a parte delle verdure miste, portate a tavola delle cresce tagliate a dadoni e chiudete in dolcezza con una pizza di uvetta e anisetta. Poi, o andate a finire di mietere il grano, o andate a fare una corsetta. Oppure, cosa più auspicabile, colti dall’abbiocco post-prandiale, prendete la strada del divano o, ancor meglio, del letto.

Carla Latini

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