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Maccheroncini al fumè, una ricetta dove vince la confusione culinaria

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Nulla a che vedere con i celebri fratelli di Campofilone, nulla a che vedere con nostalgiche cucine rurali o quelle della mamma. I maccheroncini al fumè sono uno dei simboli storici dell’evoluzione della cucina degli anni settanta/ottanta in Italia. Una cucina che non ha lasciato un’identità precisa. Ma oggi li celebro come una vera e propria ricetta. Non ce ne sono di originali e codificate tipo: nell’amatriciana non va né aglio e né cipolla; nel pesto non va il burro, e così via. Qui regna sovrana la confusione e la contaminazione più totale. Il buon senso mal applicato. Ma sono buoni. Se fatti bene, buonissimi. Alla fine degli anni ’70 erano il primo piatto che componeva un menu, assolutamente spontaneo, denominato le 3P. Ovvero, pasta, pizza e patate. Le 3P erano prerogativa del “mangiare fuori” di ogni parte d’Italia. Sulle coste marchigiane, oltre al fumè, confidenzialmente chiamato così dagli affezionati, c’erano la pizza ai frutti di mare (una novità assoluta per quegli anni) e le patate fritte. Un giovanissimo cameriere, ora cuoco di fama mondiale (non vi dico il nome per ovvi motivi di privacy e perché lo conoscete tutti troppo bene), mi diede una ricetta, una delle tante, del fumè. Per me, diciassettenne golosa, divenne da subito “L’Originale”. Prevedeva per 4 persone 320 grammi di maccheroncini di semola di grano duro, 200 grammi di pancetta affumicata, 300 grammi di passata di pomodoro, 200 milligrammi di panna da cucina, parmigiano, sale e peperoncino in polvere. Il giovane cameriere già “profumava” di stelle perché in questa ricetta non c’è olio evo. Per condire, mi diceva, bastano il grasso che lascia la pancetta e la panna. Il giovane cameriere dai ricci scomposti (tutte le ragazze volevano essere servite da lui) scrisse su un foglietto, che conservo gelosamente, così: prendi una padellina di ferro e fai soffriggere, fino a farla diventare croccante la pancetta tagliata a fiammiferi (l’attuale julienne). Togli dalla padella e conserva. Nella stessa padella, unta del grasso rimasto, fai cucinare a fuoco forte (erano tempi in cui si sobbolliva per ore!) per qualche minuto la passata di pomodoro con il peperoncino in polvere e il sale a piacere. Unisci la pancetta e la panna a fuoco spento. Mantieni in caldo. Scola i maccheroncini al dente e mescolali nella padella con il condimento, sempre fuori dal fuoco. Unisci il parmigiano grattugiato in abbondanza.

Bella e molto attuale non vi pare? Se considerate che stiamo parlando di una ricetta di circa 35 anni fa. Nel tempo, facendola, ho capito che, come volevasi dimostrare, se gli ingredienti non erano assolutamente eccellenti e di qualità, il pomodoro rimaneva troppo acido, la pancetta sapeva troppo di bestia, la panna era troppo grassa e copriva il sapore di tutto. Così persi di vista “L’Originale” e mi feci corrompere da chi soffriggeva la pancetta nell’olio evo con la cipolla e il peperoncino, sfumava con vino bianco, addirittura con la vodka, aggiungeva il pomodoro e faceva cucinare a lungo. Alla fine solito procedimento con panna e parmigiano. Poi il ritorno della pasta artigianale trafilata al bronzo permise a qualcuno di eliminare la panna. Io fui una delle prime! Poi via la pancetta affumicata per lasciare spazio allo speck. Scandalizzati? Provateci e poi mi saprete dire. Con lo speck va via anche il peperoncino. Per lasciare spazio alla paprika piccante. Sempre senza olio e sempre con lo stesso procedimento del mio cameriere con la bandana. Cotture separate e speck croccante. Ho indagato fra una pulizia del viso ed una manicure dalla mia estetista. Ognuna ha il suo fumè. Chi mette addirittura il burro. Chi al posto della cipolla, l’aglio. Chi insaporisce con origano o salvia. Chi con maggiorana o basilico. Un fumè per ogni stagione. E chi non ama sentirsi “affumicato” preferisce la pancetta naturale o un ottimo guanciale.

Ed ora, voglia di fumè saltami addosso! L’importante è che nell’insieme gli unici ingredienti evidenti siano le julienne di pancetta croccante e i maccheroncini. Il resto deve essere solo un invitante e gaudente amalgama da raccogliere con due, tre maccheroncini per volta. Vi concedo la panna, che sia fresca però!

Carla Latini

La ricetta della Crescia, la focaccia Made in Marche

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Crescia in marchigiano vuol dire pizza. Più che una pizza è una focaccia. La Crescia nelle campagne veniva fatta con la pasta lievitata del pane che avanzava. Cotta nel forno a legna, prima del pane. In questo modo la Crescia faceva da ‘cartina tornasole’ per verificare la temperatura del forno. Piccolina, rotonda e alta con le fossette sulla superficie lasciate dai polpastrelli. Fossette strategiche per catturare il condimento. In origine era condita con olio e grani di sale grosso. In seguito fu aggiunto il rosmarino. L’olio veniva spesso sostituito con il lardo o addirittura con lo strutto spalmato. Strutto e rosmarino fanno la Crescia più buona del mondo! Usata come antico cibo di strada tagliata a metà e farcita. Con le foje o con i salumi. Possiamo prepararla facilmente a casa.

Se siete bravi e vi fate già il pane sono pochi i consigli che posso darvi: che sia alta almeno tre dita, che le fossette siano profonde e che il forno non sia ‘a palla’! La nostra Crescia deve rimanere pallida. Non deve abbrustolire e diventare troppo croccante. La vera Crescia è morbida e leggermente gommosa. Se non siete bravi, fate i furbi e chiedete al vostro panettiere di fiducia un po’ di pasta lievitata per fare del pane bianco. Conditela solo con grani di sale e un filo di olio extra vergine marchigiano. La Crescia è buona calda ma anche fredda.

Per le foje procedete così: ugual misura di spinaci, bietole, cicoria, cime di rape e erbe spontanee di campo. Potete comprarla solo qui nelle Marche, si chiama ‘cucina’. Se andate in un mercato rionale marchigiano e chiedete la verdura mista di campagna, quella che si raccoglie e non si coltiva, vi daranno la ‘cucina’. La ‘cucina’ deve essere ‘capata’ con molta cura e sciacquata a lungo. Cacigna, papole, grugnetti, alcuni dei nomi in dialetto di queste foglie selvagge, crescono molto vicino alla terra e ne sono praticamente intrise. Una volta ben pulite tutte queste verdure miste vanno sbollentate, appena, e ripassate nella padella di ferro con olio extra vergine, due spicchi di aglio in camicia ed un peperoncino rosso. I dosaggi di olio, aglio e peperoncino sono a piacere. Due varianti golose di queste foje sono la prima con l’aggiunta di una patata lessa schiacciata, la seconda con l’aggiunta di alcune fave fresche, prima lessate.

Tagliate a metà la vostra Crescia, farcitela con le foje trascinate e lasciatela a riposo qualche minuto. Se la Crescia nell’interno dove poggia la verdura è diventata verde è pronta per essere mangiata. Con i salumi vale lo stesso procedimento. Salumi a piacere: salame locale, prosciutto casereccio, lonza e lonzino affettati sottili e usati come farcia. Anche con i salumi la Crescia va fatta riposare un po’. Di solito non si mettono salumi e verdure insieme. Le verdure inumidiscono troppo il salume e il loro sapore piccante ne nasconde il sapore.

Esiste anche la versione sfogliata, molto più diffusa nella provincia di Pesaro Urbino. Si avvicina, come aspetto, alla piada romagnola. Ma è più spessa. Cotta sulla piastra rimane leggermente colorita in superficie. La tradizione la vede golosamente condita come la sorella maggiore di cui vi ho raccontato sopra. Contagiati dal suo aspetto più ‘piada che crescia’ potete osare formaggi morbidi locali in aggiunta alle verdure e ai salumi. Oppure anche misticanza fresca.

Questa stuzzicante e semplice ricetta marchigiana può essere un importante antipasto, un tutto pasto, una merenda o il centro tavola di un tipico pranzo marchigiano. Senza farcia la Crescia sostituisce molto egregiamente il pane bianco.

Carla Latini

 

Il ciauscolo, l’irripetibile salume Made in Marche

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Se c’è un salume unicamente marchigiano, è il ciauscolo, o ciausculo o ciabbuscolo. Se lo chiamiamo ciabbuscolo facciamo parte della categoria di quelli che dicono che il suo nome deriva dal latino “piccolo boccone da mangiare spalmato sul pane”. Se lo chiamiamo ciauscolo e ciausculo, facciamo parte della categoria di quelli che credono che il suo nome derivi dal dialetto maceratese “lu ciausculo”, il budello gentile del maiale. Comunque lo vogliamo chiamare, o ci piace o non ci piace. E’ un salume grasso morbido e rosato. Leggermente affumicato. La norcineria marchigiana, in particolare quella del maceratese, durante la macellazione del maiale (la pista), conciava insieme a salsicce, salami, lonze e prosciutti anche il ciauscolo, nel quale veniva inglobato il grasso in eccesso che avrebbe reso poco piacevoli gli altri salumi. E’ un salume ricavato dagli sprechi. La carne era presa dalla spalla, dagli avanzi del prosciutto, dalla pancetta e dalla lonza. Più grasso c’era è più era morbido. L’impasto macinato molto fine e condito con vino, sale, pepe e aglio, si insacca nel budello gentile. Si chiude e si appende come un grosso salame nei camini dove il fumo della brace viene perennemente alimentato. Il nostro salume viene delicatamente affumicato per tre settimane, un mese. Ad affumicatura ultimata, stabilizza il suo stato fisico conservato appeso come tutti gli altri salumi. Una volta cominciato deve essere finito in breve tempo. Il grasso in esso contenuto, a lungo andare, può alterarsi e diventare rancido. Buono, anzi ottimo, sul pane caldo con un rametto di rosmarino.

Spalmato o affettato. Lo spalmabile è venduto anche in barattoli di vetro ed usato come una crema. E’ il principe degli antipasti. Con la crescia calda, da solo, con il pane cotto a legna. Se prepariamo zuppe di legumi, ad esempio, ceci lessati con aglio e rosmarino, lenticchie con cipolla e pomodoro, fagioli bianchi con foglie di menta e aggiungiamo qualche dadino di ciauscolo appena scaldato sulla piastra o in forno e un giro di olio extra vergine abbiamo un gustoso e nuovo piatto completo. Da servire d’inverno fumante e d’estate tiepido.

I norcini marchigiani hanno ricette leggermente differenti per cui sono certa che questa mia versione, ovviamente documentata, potrà dare adito a critiche. Che aspetto molto volentieri!

Carla Latini

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