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San Lorenzo in Campo

La Storia tra i fornelli nel nuovo libro di Carlo G. Valli: “Un cuoco costava più di un cavallo”

in Mangiare e bere da

La rutilante energia di Massimo Biagiali ci presenta l’ultimo libro di Carlo G. Valli: “Un cuoco costava più di un cavallo.

Nella deliziosa cornice del teatro di San Lorenzo in Campo ho rivisto con molto piacere l’affasciante professor Carlo Giuseppe Valli. Docente di marketing e comunicazione, è storico e ironico conoscitore e narratore del passato visto con gli occhi del presente per guardare al futuro.

L’argomento cuochi, ora più che mai chiamati chef (Gualtiero Marchesi che ha scritto la prefazione non approverebbe), è “caldo” come le ricette che entrano nelle nostre case attraverso tutti i media. Massimo Biagiali modifica il titolo, giocando ma non troppo, in: un cuoco è matto come un cavallo. Ci racconta delle sue esperienze passate e, con affetto, di un cuoco giapponese che ha imparato da lui ed ha aperto in Giappone una “succursale” de Il Giardino. Per fare questo mestiere bisogna avere la testa “calda”. Calda perché vicino ai fuochi. In sala si ride. Il giovane sindaco di San Lorenzo, Davide Dallonti (lo ascolto per la seconda volta, che mi conferma quanto sia preparato e dedicato) aggancia alle parole di Massimo temi cari a tutti che sono il territorio, la storia di esso, i prodotti e quindi dà al cuoco l’importante compito di divulgare e valorizzare luoghi e frutti della terra. Qualche ora prima Carlo ha incontrato Federico Ramenghi, sociologo della biblioteca del Comune, filosofo appassionato di eno-gastronomia. Insieme si sono confrontati sull’argomento. È proprio Federico che intorduce Carlo. Cominciano insieme e poi Carlo va da solo a ruota libera e vorrebbe donarci ogni riga del suo libro. Ci piace ascoltarlo. È un abile oratore. Sembra di essere sull’Agorà a trattare con il cuoco di turno.

Entriamo nella storia dal passato più lontano e scopriamo che il mestiere del cuoco è vecchio quanto il mondo. Fin dai tempi dell’antica Grecia quando si saliva sull’Agorà per reclutare un cuciniere. Che serviva per grandi banchetti, feste, ricorrenze. Costava veramente più di un cavallo. Era l’artefice, mercenario di natura, di sapori, alimenti, ricette. A lui il compito, nel corso degli anni, dell’evoluzione del gusto. Accadeva così nell’antica Roma, nel Medio Evo, nel Rinascimento. Abbiamo testimonianze di grandi cuochi osannati, portati alle stelle, strapagati ma anche frustati, puniti quando si trovavano in difficoltà durante il loro duro lavoro. Perché è sempre stato un lavoro duro. Faticoso. Al cuoco veniva lasciato anche il compito di organizzare le feste, i giochi, i divertimenti. Tutto il contorno che animava un grande banchetto. Che magari durava giorni. Con Carlo scopriamo che il giovane Leonardo Da Vinci aveva aperto insieme a Botticelli una locanda/osteria a Firenze. Leonardo stesso, quando si presentò a Ludovico il Moro, tesse lodi sulla sua arte culinaria. Come oggi “quanta folla nelle cucine”. Scriveva Senaca: “Conta i cuochi…quanta calca intorno ai focolari degli scialacquatori e… quanta solitudine nelle scuole dei retorici e dei filosofi”. Quindi, nulla è cambiato? Anche nell’antichità i grandi cuochi si circondavano di allievi fedeli. Più ne avevano e più erano grandi. La brigata di cucina ha qualcosa di “militare” e non solo qualcosa, nei nomi e nel gergo che viene usato. La squadra in cucina non deve andare in m… merde en francais perché i commensali, gli ospiti, devono mangiare bene e tutti insieme. Veniamo a conoscenza di un Macchiavelli critico sulla qualità dei vini delle osterie milanesi. A quei tempi si sceglieva un’osteria non perché si mangiava bene ma perché si beveva bene. Molti cuochi, negli anni, si specializzarono anche nella lista dei vini da abbinare ai lunghi menu. Escoffier scriveva, nel Libro dei menu, che la lista delle vivande doveva riflettere lo stato d’animo dei padroni di casa, doveva essere curata e stilata insieme a loro. Ed il cuoco doveva essere messo al corrente del motivo del pranzo che stava per preparare. Festoso? Politico? Strategico? Quindi cuochi “potenti”, consiglieri dei loro padroni. Fedeli? Molto poco. E molto poco rimane nella storia della figura del cuoco/uomo. Se pensiamo a Vatel che si uccise per un banchetto mal riuscito o se pensiamo a quanta sofferenza e disperazione provoca la perdita di una ‘stella’ possiamo dire che veramente nulla è cambiato. Ma quando nacquero i ristoranti? Fino a prima della Rivoluzione Francese esistevano le osterie, le bettole. Dopo il 14 Luglio pochi erano quelli che potevano permettersi un “cuoco di corte” e così i grandi chef organizzati presero, spontaneamente, l’unica strada possibile: attirare in una nuova formula di osteria, appunto il ristorante, gente colta e gaudente che voleva mangiare bene e bere meglio. Prima di chiudere Carlo strizza un occhio alle Marche: «Ma lo sapete che i più grandi cuochi scrittori che hanno lasciato ricette e analisi di prodotti sono marchigiani?». I nomi? Leggete il libro e lo scoprirete. Concludo con le parole “conclusive” di Gualtiero Marchesi: “il cuoco ha innanzi tutto il dovere di fare salute, di non improvvisare. La creatività arriva, se arriva, con l’esperienza. L’arte in cucina è di tutti ma non per tutti”. Con la lettura di “Un cuoco costava più di un cavallo capirete meglio questo mondo fatto di cucinieri, di artigiani della cucina, di bravi intepreti e di qualche artista genio. Come mi disse un giorno Vittorio Sgarbi: quando mangio i piatti di Vissani capisco che gli altri sono cuochi e lui è un genio. Posso solo che confermare. Buona lettura!

Carla Latini

Giorgio Grai, immenso ricercatore di odori: “L’olfatto ci ha salvato la vita”

in Mangiare e bere da

Nella vita, così come nelle “viti”, basta poco per capire. Giorgio Grai è un puro. Lo era da giovane, figuriamoci ora che è un elegante e acuto “rivoluzionario sempre”.  Uno che con l’intuizione ragionata e la passione innamorata ha creato il Verdicchio. E che gli altri dicano quello che vogliono.

Venerdì 19 febbraio, siamo al teatro Tiberini di San Lorenzo in Campo. Un emozionato Massimo Biagiali introduce e spiega perché Giorgio Grai è lì sul palco a raccontare di sé. Un mito. Chi si occupa di enologia o è solo un appassionato di vino sa che non sto esagerando. Madre Natura gli ha donato un naso ed un palato unici perché facesse diventare dei vitigni da proteggere dei grandissimi vini. ampelio bucci, cino tortorella e elio palombiDopo Biagiali la parola va ad Alberto Mazzoni, direttore dell’istituto marchigiano Tutela Vini, che ci presenta le nostre Marche con tutti i plus che meritano di essere segnalati. Giorgio Grai è accanto a chi pensa con la sua testa, cammina con le sue gambe e lotta per sé per salvare e conservare quello che c’è su questa terra. È pungente il suo eloquio quando tira in ballo Ampelio Bucci, seduto in seconda fila. L’immagine del loro primo incontro è una vignetta a tinte forti. Così come le parole che si scambiarono in cantina. Giorgio ricorda il primo consiglio: <<Pulizia! Le botti devono essere pulite>>. Da lì in poi inizia la storia del Verdicchio marchigiano. Il vino bianco italiano più conosciuto nel mondo. <<Ho capito subito che bisognava ricominciare tutto da capo quando ho visto Ampelio stappare due bottiglie e versare il suo primo Verdicchio. L’ho visto dal colore, poi ci ho messo il naso e ho capito che strada dovevamo percorrere>>.

Giorgio parla di come madre natura uccide, massacra e mantiene in vita le sue creature. Un mondo paragonabile a nessun altro mondo, il suo. Giorgio si pone vicino alle vigne. Alla loro altezza. Le ama, le segue, assaggia le uve e comprende quale vino sarà. Ma ci vuole tempo. Tanto tempo e pazienza.
Sono incantata ed estasiata dalle sue parole. Riconosco nei suoi messaggi tanti pensieri che mi appartengono. Che con lui riprendono un senso logico importante. Parte da lontano quando ci rende semplice capire il difficile: <<L’odorato ci ha salvato la vita. Ci ha insegnato a sfuggire dagli odori cattivi e a preferire quelli buoni. Poi ci sono le sfumature ed una acidità può anche essere dolce. Basta interpretarla>>. In sala dietro Ampelio c’è Cino Tortorella. Un gastronomo illustre nel panorama di media stampa e tv. In difesa del vino e del comune amico Gualtiero Marchesi, Cino esorta Giorgio a leggere la lettera aperta inviata al maestro circa il vino. Nelle righe che legge Massimo, emozionato come all’inizio, c’è tutto l’affetto per un amico vero al quale si perdona un’esternazione spontanea senza dimenticare le tante bevute fatte insieme. Pochi sanno che il naso ed il palato di Grai si sono formati prima delle vigne, dell’uva e del vino. Figlio di albergatori, i primi passi li ha fatti dietro i fornelli di una cucina professionale. Giorgio Grai cuoco? Ebbene sì. Bello rammentare le tante vite passate e progettare quelle future. Il segreto sta nello svegliarsi la mattina sempre con una nuova sfida, un traguardo da raggiungere. Lo dimostrano i suoi bianchi da invecchiamento.

senigalliaPrima della conclusione partono domande a raffica da un pubblico fatto di esperti, sommelier, ristoratori. Riconosco Simone Baleani del Molo di Portonovo e amici come Paolo Cesaretti, che è qui in veste di coordinatore del consorzio di tutela della Casciotta di Urbino (un’altra eccellenza marchigiana). Ma ci sono, soprattutto, tutti gli amici di Elio Palombi (vi ho già scritto di lui circa il Premio Città di Senigallia a Portonovo a Marchesi) che è stato il gancio/complice fra San Lorenzo in Campo, rappresentato dal sindaco Davide Dellonti, colto gourmet, e da Massimo Biagiali. A spettacolo finito andiamo al giardino dove ci aspetta un buffet tutto marchigiano ed una cena idem. Si berrà benissimo. Ne sono sicura. In mezzo a Giorgio e Ampelio ricordo la festa dei miei “primi” 40 anni. Con Edoardo Raspelli e la troupe di Mela Verde. Avevo stappato una cassa di Villa Bucci 1992. Ed era il 2001. Con noi Alessandro Scorsone (anche di lui ho già scritto su Tyche per la verticale nell’azienda Montecappone) aveva decantato il vino, la scommessa dell’invecchiamento, il coraggioso produttore e il geniale enologo Giorgio Grai. Mi giro e Giorgio è scomparso. Poi sento il mio nome e mi avvicino ad un gruppetto, circa 4-5 persone privilegiate. Dietro il bancone del bar Giorgio sta stappando una bottiglia. Non leggo l’etichetta. Ci versa, sempre solo a noi privilegiati, un vino bianco brillante e vivace. Ci metto il naso. Mi arrivano profumi. Definiti. Li riconosco. Mi permetto di parlare per prima: <<E’ un pinot bianco?>> Lo è. Mi congratulo con me stessa. <<Avete visto l’annata?>>, dice Biagiali. 2001. Un pinot bianco del 2001 firmato Giorgio Grai in etichetta. Porto il calice al mio tavolo. E sorseggio questo miracolo della natura per tutta la cena. Giorgio si alza, saluta e ringrazia tutti. Viene verso di me e mi interroga con gli occhi. Non mi importa di sembrare scontata, al limite della stupidità e gli dico che sono commossa, che in poche ore ho arricchito la mia mente ed il mio cuore. Posso confermare a me stessa che non sto sbagliando. <<Raccontami>>, mi dice sempre con gli occhi. E mi prendo un altro privilegio buono quanto il suo pinot bianco che, intanto, continua a comunicare la sua storia e i suoi profumi.

Tornerà nelle Marche Giorgio Grai? <<Dipende da quanto un mio amico avrà voglia di ricominciare>>.

Carla Latini

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