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I Due Cigni di Rosaria Morganti, quando la cucina è una ricerca in continuo movimento

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Il suo ristorante, anzi il Ristorante di famiglia, è a Montecosaro Scalo. Si chiama Due Cigni. Fra i fornelli con Rosaria Morganti c’è mamma Ida. Se vi aspettate una cucina al femminile vi sbagliate di grosso. Qui si respira terra, materia, mare, spezie, profumi intensi e netti. Ricette antiche e codificate che hanno una storia da raccontare.

Ma perché Due Cigni? Mentre si mette in posa per la foto ufficiale prendendo in mano alcune pesche Saturnia come farebbe un giocoliere esperto con le sue palle, mi racconta che quando la mamma aveva il ristorante lei e la sorella erano piccole. Gironzolavano senza una vera e propria vocazione. «Che farò del mio ristorante?” chiese mamma ad un ospite abituale e molto gradito. E lui rispose: «Hai due figlie che crescono come due cigni. Ci penseranno loro». In verità poi la sorella ha preso il volo e lei, dopo aver interrotto gli studi di Medicina, ha preso in mano l’intero progetto. Ed eccola qua. I giovani le dicono che è vecchia (classe ’57) ma le sue ricette, i suoi piatti, sono sempre in continuo movimento. Deve inventare, cambiare, creare, imparare.
Dura e dolce nello stesso tempo. Come la sua cucina. Tenera e delicata quanto caparbia e combattiva. Una guerriera che profuma di sfoglia, di spezie, di erbe e fiori dimenticati. Ci ricordiamo con piacere dei tempi di Cuochi di Marca. Quando un gruppo di cuochi illuminati voleva cambiare in meglio la nostra regione. Era l’unica donna e teneva testa a chef del calibro di Lucio Pompili. Che la adora ed il sentimento è reciproco. La conosco da tanti anni e sono tanti anni che non ci vediamo. Vorrei dirle mille cose che non le ho mai detto. Di quanto l’ho sempre ammirata, stimata e sostenuta. Ma la lascio tranquilla. Perché stasera per me ed i miei ospiti sfida l’ovvio, poteva essere diversamente? Ed osa. Dove solo chi sa può osare.
Una cena con la pesca Saturnia dall’antipasto al dolce? Dalla mente di Rosaria, su questo argomento, sono nati abbinamenti felici e “stracopiati” (fammelo scrivere Rosaria per favore!) da cuochi emergenti giovani e senza solide basi. Se mangiate in giro la pesca Saturnia con il pesce crudo, con le cozze, con il prosciutto ecc…dovete dire grazie a questa signora elegante, fantasiosa e tenace.
I piatti che vi descrivo fra poco li trovate nel menu. Quindi oserete anche voi!
Per Saturnia Rosaria “pesca” nella storia fino al 1500, “pesca” nella memoria e nei piatti casalinghi del lunedì; “pesca“ nei suoi approfondimenti mediterranei con Sergio Mei (uno dei più grandi veri cuochi italiani); “pesca“ nei suoi giorni in Giappone nella cucina di un altro grande; “pesca” nella memoria di un dolce, forse, banale; “pesca” nei forni dai quali uscivano arrosti gaudenti e saporiti. Non mangeremo pesce crudo stasera. Non mangeremo cozze. Il nostro primo antipasto sono due crostini fatti con burrata e acqua di rose, con le pesche e tante spezie profumate. Accanto due bocconi con prosciutto (il nostro, sottolinea) e pesca. L’acqua di rose è la sua. La ricetta del 1500. Ma qualcosa di crudo in verità c’è. È una tartare di agnello dei nostri monti. Un piatto coraggioso. Con melanzane, pesche e menta. Che esce prepotente ma non dispiace. Anzi, piace molto ai miei. Brava Rosaria! Poi arriva il risotto del lunedì. Quello fatto a casa con gli avanzi della domenica. Come quando si faceva la pasta con pomodoro e burro. Il risotto è con il pomodoro e manzo essiccato. Mi fa venire in mente nonna che metteva anche i piselli. Quando nell’orto finivano i piselli e cominciavano i pomodori. Si può “cacio e pepe” con Saturnia?

cacio e pepe i DueLe tagliatelle fatte in casa con il grano Saragolla si agganciano ad un condimento prepotente fatto di sapori aggressivi e morbidi nello stesso tempo. I piatti di Rosaria, tutti, cominciano con profumi forti che arrivano fino alla mente e rimangono in bocca. E si separano, si uniscono insieme alle erbe e agli aromi. Hilde Soliani, che è al mio fianco, le tira fuori un passato orientale e le dice: «Sembra di essere a Londra in un eccellente ristorante fusion». Un complimento? Decidete voi quando mangerete da Rosaria. Odori caldi di forno arrivano dalla cucina. Un trancio di porchetta con crosta croccante e carne che si scioglie in bocca sposa Saturnia. Nozze d’oro sicuramente. Chissà quante volte e in quante case qui intorno avranno cotto maiale e pesche? Il dolce (banale ma perché?) è un normale soufflè di pesche. Fatto benissimo. Da mangiarne fino a tarda notte insieme ad un Calvados del ’77 consigliatoci da Silver Frati, il Maitre sommelier. Un professionista di grande apertura mentale. La cantina dei Due Cigni è piena di piacevoli sorprese. Come Il Cupo 1999 di Ester Hauser che a dispetto del nome sta in provincia di Ancona. Con me e Hilde c’è Francesco Annibali. Che ringrazio di cuore per il pomeriggio nel pescheto (di cui vi ho già raccontato QUI) e di questa serata con Rosaria. Una Rosaria che osa. Tant’è che quando Hilde le fa sentire alcuni sui profumi, non ha dubbi e sceglie “Osare”. «In due parole come mi definiresti?», chiede Ilde a Rosaria mentre si fanno immortalare da Marco Bargnesi. «Profondità diversa. Tu hai una profondità diversa”. E le due signore continuano a scambiarsi emozioni, sensazioni, esperienze ecc…mentre io e Francesco, comuni mortali, finiamo il nostro Calvados.
Due Cigni, via Ss Annunziata 19, 62010 Montecosaro (MC) tel 0733 865182 info@duecigniristorante.com

Carla Latini

Maria Letizia Gardoni: da “Un Podere sul Fiume“ alla presidenza di Coldiretti Giovani

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Maria Letizia Gardoni Coldiretti TycheCosa vuoi fare da grande? «O la guardia forestale a cavallo o vivere e lavorare in una fattoria». Era “piccina piccina” ed aveva già le idee molto chiare l’attuale presidente dei Coldiretti Giovani Impresa. Maria Letizia Gardoni, “Titti“ per gli amici, conduce il suo “Un Podere sul Fiume”, ad Osimo.

Si trova a due passi da casa mia. Dire che la conosco da quando aveva 3 anni, forse meno di 3 anni, è doveroso e (orgoglio di mamma!) sono felice di scrivere su di lei. Che da “piccina piccina” è diventata una splendida donna, bella fuori ma ancora di più bella dentro. Me la ricordo quando il nonno la portava all’asilo. Lei e la mia Teresa, le più piccole e le più caparbie. Sarà stato il nonno a farle sentire subito il profumo ed il sapore della terra? Voglio credere che sia così.

Quando è scattata la “voglia di campagna”?

«Credo di averla sempre avuta. Sono cresciuta in campagna, circondata da verde e animali. Da piccola, come ben sai, volevo fare o la guardia forestale a cavallo o avere una fattoria tutta mia. Ho studiato, ho fatto il classico, l’Università, scienze tecnologiche agrarie. Poi, un giorno mentre ero in aula, ho sentito una spinta dentro, fra cuore e pancia. Dovevo dare un altro senso alla mia vita».

E quindi?

«Mi sono alzata (come in un film n.d.r.), sono uscita dall’aula, sono tornata a casa. Ho riorganizzato le idee e ho deciso di investire in un terreno proprio accanto a casa mia. Dieci ettari che volevo diventassero miei. Il mio podere sul fiume. E si chiama proprio così. Avevo 19 anni. Ho provato subito il piacere unico di toccare e lavorare la terra con le mie mani. Qui ho cominciato a coltivare frutta e ortaggi seguendo il disciplianare macrobiotico».

Vicino al biologico, biodinamico, fammi capire…

«Molto di più. La filiera macrobiotica è molto rigida. Nasce dal pieno rispetto della terra e della natura. Si avvale di antiche varietà recuperate, si basa sul concetto dell’autoriproduzione di alcuni semi, seguita con molta cura. È un modello agricolo quasi perfetto che credo possa salvare l’agricoltura italiana. Dobbiamo puntare i piedi con competenza. Credere che coltivazioni alternative fra i meravigliosi filari di un frutteto possano essere un modello agricolo da seguire».

Nelle Marche, a Macerata, sapevo che ci sono esempi interessanti, vero?

«Sì è vero. C’è il Guru della macrobiotica, che ancora non conosco ma che seguo nei suoi insegnamenti. Si chiama Mario Pianesi. Lui ci spinge verso il recupero dell’educazione alimentare. Verso un benessere naturale. Un benessere che riguarda la qualità del cibo e la qualità della vita delle persone. Il ruolo del contadino diventa così strategico e determinante per la nostra salute».

I contadini, gli agricoltori, vengono spesso accusati di “inquinare”, condizionati dall’industria?

«Ecco perché dobbiamo puntare i piedi. Voglio far capire agli agricoltori, e i giovani sono tutti su questa strada, che non si tratta di un’attività agricola e basta. Si tratta della vita di ognuno di loro. Sono loro che vivono la loro terra. Tempo fa ci si condizionava in campagna con gli interventi (nitrati spesso) chiamati a calendario. Anche se il campo era sano si interveniva ugualmente. Quel calendario ha fatto molti danni. Oggi i coltivatori hanno preso coscienza di essere i primi tutori e responsabili del loro territorio. Una terra da lasciare alle generazioni che verrano. Una terra sana».

Ecco che arriva l’anima combattiva che conosco in te. Come ti senti in questo ruolo così importante e di grande responsabilità?

«Fare la presidentessa dei Giovani Coldiretti mi entusiasma ogni giorno di più. All’inizio ero un po’ smarrita. Come è normale che sia. Oggi cresco con loro. Sono più di 70mila giovani fra i 18 e i 30 anni. Preparati, colti, pieni di energia, di voglia di fare e di idee. Che facciamo generosamente circolare. È una fucina sempre in attività. Li sostengo, li difendo, li appoggio e li aiuto in ogni modo. Ora sono serena e il mio lavoro va molto bene».

Torniamo ai frutti macrobiotici della tua terra. Che canale di vendita seguono?

«Tutti i canali che desiderano distinguersi e fare dell’alimentazione una sana alimentazione. Un’alimentazione che previene e ti fa stare bene. Sono i ristoranti, i punti vendita, i centri macrobiotici. Dove non si mangia e basta, ma si fa cultura alimentare».

A proposito, cosa mangia Maria Letizia Gardoni?

«Tutti i prodotti sani della terra che abbiano una “carta di identità”. Amo il riso integrale che coltivano miei amici in nord Italia. Lo abbino alle verdure del mio orto. Mangio sempre e solo stagionale. Mi faccio il pane in casa, che mi viene benissimo. Mi “nutro” di olio extra vergine marchigiano. Dei formaggi dei nostri allevamenti. E poi, girando l’Italia agricola, ci scambiamo i prodotti a e posso godere della bontà delle tante varietà antiche recuparate. Dagli ortaggi alla frutta, dai legumi ai cereali, dalle carni ai formaggi. Il meglio che la biodiversità italiana ci offre».

Grazie Maria Letizia, è stato bello parlare con te. Andiamo insieme a trovare Mario Pianesi un giorno?

«Con molto piacere! Grazie a te».

Carla Latini

 

Brunelli racconta il suo gelato. Storie golose da Agugliano a Senigallia

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Paolo Brunelli: il gelato è morto. Evviva il gelato! Per noi marchigiani, lui è il Maestro gelatiere visionario. Da Agugliano a Senigallia attraverso esperienze e stage mondiali. Venite con me nell’entourage gelato, caldo, dolce, salato, colto, semplice, laborioso (nel senso di vera e propria fatica) di Paolo Brunelli. Mi sono letta la sua biografia e ne so tante. Ma oggi voglio sentire il suo racconto. E attacco subito.

Come mai Agugliano?

«Ammetto che è un paesino destinato a “terra di mezzo“. Bel paesino, terra importante. Senza identità grazie all’abuso edilizio (e dove non c’è stato?) senza identità culinaria. Ma qui c’è la Locanda di mamma Maria Luisa Berardi sorella di un personaggio illustre della eno-gastronomia marchigiana. Che tanti devono ricordare: Ilario Berardi».

E così, io, Carla Latini, torno indietro di tanti anni quando cucina e vino contaminavano la musica. Con Ilario ho fatto cose belle in radio e la sua/nostra trasmissione si chiamava Culinaria. Poi chiedo a Paolo.

Ma tu quanti anni avevi per seguire le intuizioni di zio Ilario?

«Ne avevo 12. Sono cresciuto in cucina. Fra mamma e zio Ilario. Ho ereditato le ricette dell’epoca. Mamma pensa alla cucina e il gelato non è nemmeno la ruota di scorta. Ma a me piace e zio Ilario mi incoraggia e mi prende accanto a sé mentre diventa la figura più colta del mondo del vino nelle Marche».

Non dirmi che sei stato tu a fare tutti i sorbetti del mio matrimonio? Mi sono sposata nel 1984 e Ilario è stato il mio cuoco/mentore/guida/amico…

«Sono stato io. Cucina e gelato, gelato e cucina. I prodotti unici e delineati che sceglieva zio. Ed io lì a seguire innamorato. Ma c’era poco spazio e quindi, anche se la mia ambizione era forte, ho scelto di fare il musicista. Erano i primi anni ’90».

E poi che è successo?

«È successo che, senza scendere a compromessi o magari perché doveva andare così, sono tornato a casa. Il bar gelateria era il mio laboratorio. Per anni ho lavorato in un laboratorio sotterraneo: poca luce viva, poco spazio ai sogni fino a quando questi non sono diventati così grandi da richiedere uno spazio più grande e in emersione. Quel sotterraneo di Agugliano è stato il laboratorio della mia professione. Lì sono stati fatti i tentativi maggiori, lì ho cominciato a sperimentare gli abbinamenti, le materie prime e a cercare un gelato che potesse essere un piatto da gourmet. Cercavo soddisfazione, cercavo il plauso, cercavo anche la popolarità nei miei sogni. È stato così che tra mille peripezie sono riuscito a creare la mia professione. Ho azzardato con l’acquisto di macchinari che sapevo sarebbero stati indispensabili, ho scommesso su un processo di lavorazione controcorrente: “Il gelato da Brunelli finisce”. Un messaggio forte quello di fare capire che da me il gelato si fa tutti i giorni e che se ho calcolato male la richiesta e non ho ponderato bene gli imprevisti, benché vengano definiti tali proprio perché non misurabili, quel gusto di gelato potrebbe non esserci più fino al giorno dopo. Ho combattuto non poco per scegliere una strada nella strada, ovvero quella di fare un vero gelato artigianale. Una scelta che ancora pesa, che non dà grandi soddisfazioni economiche, ma che ha un riscontro totale in chi è particolarmente attento al gusto e anche in chi si approccia per la prima volta al mio modo di concepire il gelato».

Un gelato non gelato ma un gelato che vale tutti i giorni e in tutte le stagioni e con gli ingredienti fuori dagli schemi classici, che scegli tu?

«Brava, hai toccato il tasto/gelato giusto: gli ingredienti. Fare un gelato con il pistacchio (vero) di Bronte o con il cioccolato del quale mi sono profondamente innamorato grazie all’aiuto di grandissimi maestri internazionali e nazionali. Azzardato farlo con un caprino dop e un pomodorino idem… E poi la mia esperienza nel campo della degustazione del vino prima e del tè poi, ha generato un rapporto quasi maniacale per la ricerca del gusto. Come cioccolatiere mi ritengo perciò abbastanza atipico. Ma erano i primi anni ‘ 90 quando pochi ma intelligenti clienti facevano chilometri dalla costa all’interno per venire da me».

Contaminazione gaudente dal dolce verso il salato. Il gelato fine a se stesso che entra nell’alta pasticceria e nella cucina. Il gelato piatto gourmet. Un giorno poi qualcuno ti ha portato Silvio Barbero di Slow Food (allora co-fondatore Slow Food e marchigiano per amore)…

«Mi ha detto che dovevo credere in me e uscire fuori. Mi sono fatto forza, ho investito ed ogni giorno ci penso. Ad Agugliano è rimasto il laboratorio ricerca sul cioccolato. A Senigallia, dove ti aspetto (verrò presto lo giuro! ndr), il laboratorio ricerca sul gelato. Credo nell’uso funzionale del gelato. Questo pensiero ha generato il Festival del Gelato. Erano periodi di avanguardia. Periodi non sospetti. Nessuno poteva sapere dove la mia “visione” stava andando. Il buio degli anni passati. Il buio del laboratorio di Agugliano da dove facevo andare via i clienti ora non esiste più. Anzi, è diventato luce».

Una luce che risplende grazie anche al Festival del Gelato di Agugliano. Nato nel 2010 che coivolge Maestri gelatieri da tutto il mondo. Questo voluto da te. Quando la Crema Brunelli, un evergreen che tu paragoni a “Ti amo” di Umberto Tozzi con la crema alla nocciola tradizionale, il cioccolato, il Varnelli che non manca mai insieme all’olio extra vergine hanno detto: il gelato da Brunelli finisce! 

«E continua ad essere quello che ora è, dopo 30 anni di miniera, senza togliere alcun rispetto a chi la fa veramente, meritandomi, scrivilo (sicuro che lo scrivo! ndr) la bellezza che mi circonda. Sarò al Salone del Gusto lungo la via del Gelato. Lunga ancora da percorrere. Bella, dolce, salata, nel mio cuore».

Come si fa a chiudere uno scambio di sentimenti, idee e ricordi così? Non si chiude si tiene aperto. Con il sorriso di Paolo Brunelli che, mi sono dimenticata ma non credo sia necessario ricordarlo, vanta premi e riconoscimenti nazionali e internazionali.
Vi aspetta a Senigallia, via Carducci.

Carla Latini

Montecappone e i suoi vini, dall’Utopia alla scommessa bio. Sempre con passione e fantasia

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Cantine Montecappone foto by KrugerOgni occasione è buona per bere i vini di Montecappone di Jesi. Fine maggio, Cantine Aperte. Sono da Gianluca e Annarita Mirizzi. Amici da tanti anni. Trasferiscono la loro energia, la loro emotività e la loro precisione maniacale nei vini che producono insieme al loro staff di agronomi ed enologi capeggiati da Lorenzo Landi. Quindi c’è amore, fantasia, passione, tecnica e virtuosismo in un mix di assoluto valore. Un grande vino nasce in vigna e la Montecappone possiede 54 ettari di vigneti e 12 ettari di oliveto. Una fattoria davvero ben strutturata e con quasi cinquanta anni di attività. Prima di cominciare a fare due chiacchiere, Gianluca mi porge da assaggiare i suoi nuovi spumanti di Verdicchio e Sauvignon ottenuti con il metodo charmat lungo. Cinque mesi in autoclave e uno in bottiglia. Sono vent’anni che Montecappone coltiva e produce Sauvignon. Tra i primi nelle Marche. Passiamo ai Verdicchio fermi. Il Federico II, in onore a Jesi e alla sua storia, è un Verdicchio Classico Superiore giovane e fresco negli aromi, che ha un’ottima beva ed è di assoluta convivialità. La Riserva Verdicchio si chiama Utopia: affina almeno 18 mesi di cui 12 in vasche di cemento ed almeno 6 in bottiglia. Una scommessa all’inizio! Di più. Un’utopia. Da qui il nome: sarà utopia immaginare un verdicchio che invecchia oltre 10 anni? Scommessa ampiamente vinta. Poi c’è il Tabano Marche Bianco Igt, un blend di Verdicchio, Sauvignon e Moscato passito. Vino fruttatissimo e piacevolissimo che su una delle cinque guide nazionali riceve l’onorificenza di “Miglior Vino Bianco d’Italia”. Il Tabano Rosso è un blend di Montepulciano e Syrah, 12 mesi in barrique e il resto in cemento. Infine, ma non ultimo, Utopia Rosso Piceno doc, il top della gamma dei vini rossi, Montepulciano e una piccola parte di Sangiovese.

Parliamo delle novità. Gianluca ha sempre avuto la sua posizione, in linea con tutte le principali ricerche universitarie del globo, sui vini naturali, sui biologici. Le sfide, si sa, prima o poi vanno colte e, sorpresa per tutti, dal marzo prossimo ci sarà una nuova linea di Verdicchio bio che porterà il suo nome, Gianluca Mirizzi. Sei ettari di terra a Monte Roberto stanno dando vita a questa nuova avventura. «Sono mesi che combatto con il rame e lo zolfo come gli antichi romani…». L’uva raccolta sarà biologica al 100% e certificata. Ad essa verrà applicata la stessa tecnica enologica conservativa (quella che vuole che il vino sappia dell’uva con cui è prodotto) che ha fatto la storia della Montecappone. Tante belle cose nuove stanno per arricchire il rutilante panorama del mondo enologico marchigiano e non. E alla festa dei 50 anni di Montecappone noi di Tyche ci saremo.

Se volete altre info: www.montecappone.com, tel. 0731205761

Carla Latini

Michele Pecora ricorda Gianni Ravera: “L’innovatore della musica italiana”

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Chi pensa erroneamente che Michele Pecora sia stato solo una meteora discografica degli anni Ottanta deve assolutamente rivedere il proprio giudizio. Michele, nato in provincia di Salerno ma marchigiano da sempre, ha saputo trasformarsi da cantautore a discografico, da talent scout a direttore d’orchestra. Ed ora, come ci racconta in questa intervista esclusiva che ci ha concesso, pure direttore artistico del Premio Ravera.

Michele, la tua è una vita sempre vicina alla musica.

«Sì, ho un grande amore per la musica. L’ho portata dietro per tutta la vita. Una passione di quelle che non ti fanno pensare al risultato ma ti fanno suonare per il piacere di farlo. E inevitabilmente poi arrivano anche i risultati. La mia attività cantautorale nasce a Castrocaro, con Gianni Ravera che mi ascolta e mi fa esibire al Festival. Quell’anno lo vinco pure: da lì inizia quest’avventura che mi ha portato col tempo a fare tante e tante cose. Certo, di musica si vive, ma bisogna anche guardarsi intorno perché i tempi e le cose cambiano. È giusto quindi ampliare il proprio raggio d’azione. Ecco allora che le strade si moltiplicano, fino alla direzione artistica di eventi. Sono convinto del fatto che fare l’artista e vivere di arte sia anche rimanere al passo con i tempi. Non ancorandosi alla nostalgia di un passato che non c’è più, ma vivendo il presente e il futuro. Con tutti i suoi cambiamenti».

Quindi è nato il Premio Gianni Ravera – Una canzone è per sempre.

«Mi sembrava giusto tributare un omaggio all’uomo che ha innovato e ha fatto per anni e anni la storia della musica di questo Paese. Basti pensare che nei tantissimi festival di Sanremo organizzati da lui, delle 18 canzoni in gara almeno 14 erano dei successi. Quindi aveva la grande capacità di individuare il talento oltre le apparenze. Ramazzotti e Zucchero sono solo alcune delle sue ultime scoperte. Era un innovatore: fu il primo a portare gli artisti stranieri a Sanremo e a farli cantare in italiano. Tra cui memorabile fu proprio l’esibizione di Louis Armstrong».

Ravera è un personaggio culturale molto importante di questa nostra regione, essendo nato proprio a Chiaravalle.

«Era legato alla sua terra. Ricordo che quando lo incontravo era sempre commosso nel ricordare Chiaravalle, dove veniva appena possibile. Ravera è stato l’inventore del festival di Castrocaro, che ritengo storicamente addirittura più importante di Sanremo. Sanremo è un punto di arrivo, ma da Castrocaro sono passati tutti, nei tempi in cui si riusciva ad individuare i talenti. Perché la musica va giudicata da persone competenti, cosa oggi più complicata. Ravera era questo, dava una possibilità. Claudio Cecchetto ha raccontato che doveva uscire il brano del Gioca Jouer ma Ravera gli disse di aspettare e farlo andare come sigla di apertura di Sanremo. Quella scelta fu un successo».

Oltre a Cecchetto, la prima edizione ha avuto grandi ospiti. Come Carlo Conti e Pippo Baudo…

«Baudo ha avuto un rapporto di collaborazione con Ravera lungo 30 anni. Altri ospiti sono stati Dario Salvatori, Iva Zanicchi, Fausto Leali… Insomma tutti quelli che hanno attraversato la vita professionale di Ravera».

Intanto che anticipazioni ci puoi dare?

«Quest’anno le serate saranno due e non una e si è aggiunta l’accademia Gianni Ravera, per la scoperta di nuovi talenti».

Kruger Agostinelli

La Mannoia condanna a Fermo ogni violenza in un concerto sotto il segno di Dalla

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Fiorella Mannoia si sofferma su un termine caro a Lucio Dalla, “mascalzone”. Gli serve per descrivere il potere e la classe politica che pur di mantenere il proprio posto incita alla violenza e si scaglia sempre contro i più deboli. Poi punta il dito, senza mezzi termini, sulla tragedia di puro razzismo che si è abbattuta su Fermo, città che l’ha tenuta a battesimo per il nuovo tour “A te. Omaggio a Lucio Dalla”. Rivolgendosi al pubblico, dedicandogli lo spettacolo, dice: «Emmanuel non ce l’ha fatta. La moglie ha ceduto gli organi del marito, impartendo una lezione che i razzisti con capiranno mai».

Passionaria ma anche interprete di raro carisma, rapisce e trasporta nel mondo multicolore del cantautore bolognese a cui era molto legata. Fiorella incanta la bella Villa Vitali al festival Villa in Vita di Fermo, nel concerto numero zero del nuovo tour che si è tenuto mercoledì 6 luglio. Una platea stracolma che si perde nella poesia del linguaggio e nell’armonia musicale di un Lucio Dalla questa volta consegnato ad un’ambientazione sonora orchestrale. Uno spettacolo intimo, in cui la personalità della Mannoia ha saputo rendere intatte le atmosfere del cantautore bolognese. Nel variopinto mondo “dalliano” abbiamo optato per l’interpretazione di “Cara”. Poi inevitabile il bis con “Attenti al lupo”, a cui segue la candida affermazione «Sono sicuro che Lucio me l’avrebbe permesso» quando Fiorella ha trafitto al cuore i suoi fans con tre suoi brani. Delirio in tutti i sensi grazie a “I dubbi dell’amore”, “Perfetti sconosciuti” ed una corale ed appassionata “Quello che le donne non dicono”. Sembra tutto finito ma è talmente grande l’affetto del pubblico che si porta appresso il suo pianista e canta ancora un brano, “La storia siamo noi” di Francesco De Gregori, tanto per non venir meno al suo impegno sociale anche nella musica. Applausi in una notte triste per Fermo ma ricca di cultura ed impegno.

 Kruger Agostinelli

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I Tiromancino presto al Tyche Festival: “Sarà un’estate molto marchigiana”

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«Evidentemente sarà un’estate molto marchigiana», mi dice Federico Zampaglione, leader dei Tiromancino, con un calice di vino rosso in mano mentre si gode il clima festoso del dopo concerto. La band ha recentemente terminato la data zero del tour “Nel respiro del mondo” al teatro di Cagli. Spettacolo avvolgente dalla prima all’ultima nota. Considerando che il concerto non potrà che migliorare, ecco che si tratta di uno degli appuntamenti imperdibili di quest’estate. Da segnare in rosso, perciò, la data del 4 agosto, quando i Tiromancino si esibiranno a Civitanova nell’area del Tiro a Volo, denominata Arena del Mare. È aperta la prevendita su CiaoTickets con biglietti a 15 euro. Estate marchigiana, si diceva. Già, perché dopo l’esibizione a Cagli con cui è stata lanciata la tournée e prima del concerto civitanovese, Zampaglione e soci saranno ancora nella nostra terra. I Tiromancino sono attesi sabato 25 giugno allo Sferisterio di Macerata nella serata finale di Musicultura. Dal 23 al 25 giugno sono in programma le tre notti dedicate alla XXVII edizione del prestigioso Festival della canzone popolare e d’autore. Da ricordare che Federico Zampaglione è tra i membri del comitato artistico di Musicultura. Insomma, il 2016 dei Tiromancino propone un filo diretto importante con le Marche. Ma torniamo all’incontro con Federico Zampaglione nel dopo concerto di Cagli. Ecco cosa ci siamo detti.

“Nel Respiro Del Mondo”, lo spettacolo che avete appena presentato, parla del mare e…

«Sì, è dedicato al mare che in realtà è qualcosa di così immenso, contiene così tante energie. Ma parlo di mare anche come luogo di pace, di tranquillità, di ispirazione dove si scrivono anche canzoni. Ad esempio, ho composto “Piccoli miracoli” di fronte a un tramonto meraviglioso in Thailandia. Vedi, il mare è anche un luogo di viaggio e di avventura, per cui la gente attraverso il mare raggiunge posti lontani e nuove popolazioni e si confronta con costumi, razze e usanze diverse».

Sembra un’introduzione fatta apposta per il vostro concerto, al Tyche Festival di Civitanova mercoledì 4 agosto, proprio in riva al mare.

«Sarà fantastico, non vedo l’ora di essere lì. Io tra l’altro ti posso dire che l’estate scorsa ero a Civitanova, ma in vacanza. Ero andato dai miei amici Ermanno e Paolo, per trascorrere la settimana di Ferragosto. Ci siamo divertiti molto. Quindi sono contento ancora di più di avere questa occasione per ritornarci. E magari, se non abbiamo date il giorno dopo, rimango pure questa volta e prometto di passare anche da voi in redazione».

Guardando la vostra pagina Facebook si capisce che hai un bellissimo rapporto con i tuoi colleghi, che spesso citi e metti in mostra. Insomma, non sei né egocentrico né solista con i tuoi atteggiamenti.

«Ho molti amici nel mondo della musica e non ho questo senso competitivo. La competizione la lascio allo sport. Io con i colleghi cerco di confrontarmi, di avere e dare consigli. Vedi, il bello di fare un lavoro così è che non dovrebbero esistere certe energie negative. Bisognerebbe godersi la fortuna e la passione che si ha nel comporre e creare musica».

Sarai presente anche a Musicultura il prossimo giugno.

«Sì, a Musicultura avevo partecipato già due anni fa ed è un’iniziativa molto bella. Anche quest’anno ho fatto parte della giuria e ascoltando tutti i ragazzi in concorso ti dico che ho fatto veramente fatica a scegliere, dal mio punto di vista, un vincitore. Sono tutti molto interessanti».

Hai altri ricordi e aneddoti marchigiani?

«Certo, mi ricordo la prima data in club dello scorso anno al Donoma che era andata molto bene. Nelle Marche in effetti ci vogliono bene ma anche noi non scherziamo: mezzo staff è marchigiano. Mi è capitato di mangiare in un ristorante di Cagli, di cui non ricordo il nome, ma devi provare come cucinano, una cosa pazzesca. E il proprietario ci ha detto una cosa che poi fa la differenza su tutto: “Faccio questo lavoro perché mi piace, quando cucino e porto a tavola mi diverto”. Siamo simili in questa filosofia di vita».

Non resta che aspettare il 4 agosto, primo appuntamento del Tyche Festival all’Arena del Mare, ad un prezzo molto vantaggioso, solo 15 euro. Una location che si sposa perfettamente con lo spettacolo dei Tiromancino e che si propone come baricentro dell’estate musicale marchigiana.

Prevendite disponibili su CiaoTickets e TicketOne.

Kruger Agostinelli

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A Camerano è arrivata la grande “cucina e vini” del Bistrò di Marco Grassetti e Francesca Cingolani

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Giovani, belli e “locali”. Hanno avuto il coraggio, nemmeno un anno fa, di trasformare un piccolo bar in un ristorante elegante e raffinato. Il bianco e il grigio chiaro rilassano la vista. Francesca Cingolani in sala è gentile e professionale. Marco Grassetti sui fornelli crea piatti che nascono anche da esperienze passate. Ho trovato una cucina matura e sicura. Ho bevuto vini molto interessanti. È stata Francesca a scrivermi e così ci siamo accordate per un giorno tranquillo, il lunedì. È ancora un po’ freddo, purtroppo, e non posso godere di una cena in terrazza. Una terrazza cittadina nel cuore del paese che guarda il mare. Le luci sono suggestive ed il cielo, striato di nuvole, è limpido.

rombo intero Bistrò Camerano Dalla cucina Marco mi fa arrivare un rombo freschissimo che metterà al forno con pomodorini, olive e profumi dell’orto. Facile a dirsi vero? Fra le paste ripiene che sono fatte tutte in casa e strizzano l’occhio alla tradizione, mi viene consigliato un risotto di pesce. Mi affido docile e certa di fare la scelta giusta. Anche sul vino: Alba Nuda, un brut rosé di Angeli di Varano. Che reggerà la mia cena dall’antipasto al rombo. Prima però pani fatti in casa e olio extra vergine il Conventino per zuppettare nell’attesa. La coppia e sposata dal 2008. Un amore travolgente che ha distolto Francesca dalla sua prima passione: la musica. Francesca è soprano. Marco ha un percorso formativo di tutto rispetto: alberghiero e poi incarichi in ristoranti importanti come il Saraghino a Marcelli. Sono diversi i big che lo scelgono per lavori importanti. Una fra tutte Beatrice Segoni (ho già scritto di lei QUI) che l’ha voluto a Firenze per il pranzo di D’Alema e Clinton. Marco non lo racconta ma una foto discreta, attaccata al muro in una parete un po’ nascosta, lo ricorda.

antipasto Bistrò Camerano Ecco l’antipasto. Da destra a sinistra i sapori si fanno più forti. Salmone con uova di salmone e misticanza, un velo di pesce crudo abbracciato ad un piccolo grissino, insalata di polpo in piccoli pezzi con nuvolette di porro fritto sopra. Mi ricorda qualcuno, anzi qualcuna, ed il polpo di Marco è assolutamente all’altezza! Infine alici marinate e insalata mista dolce. L’intelligenza e la sensibilità di un cuoco si vedono anche in questi piccoli dettagli: con il dolce salmone la misticanza ricca di rucola, con le alici marinate la dolce cappuccia. Dico a Francesca che mi è piaciuto tutto molto. Mi sorride. Il risotto è superbo. Mantecato con gli umori dei pesci che lo compongono, moscioli, piccoli scampi, pesce azzurro. Tutto molto amalgamato e armonico. Erbette verdi lo decorano e il giro di olio a crudo mi fa tornare indietro nel tempo. Alla grande scuola di Gianfranco Vissani. Ma a Marco non l’ho detto. Lo leggerà qui.

risottoAspettando che il rombo esca dal forno scopro che la coppia era in società con il pizzaiolo della famosa pizzeria Flamingo a San Biagio di Osimo. Ai tempi top era un cult. La pizza molto buona ed anche il menu alla carta molto buono. Era opera di Marco. Poi i luoghi cambiano faccia. Basta un niente. La chiusura di un paio di negozi e piccole fabbriche, la chiusura di un hotel… non c’era più ragione di resistere lì. Così, forza e coraggio e con la gioia della nascita di Alessandro che ora ha 10 anni, Francesca pensa di tornare a casa, a Camerano. Il Bistrot è dopo la piazza principale, prima del curvone con la terrazza sul mare. Arriva il rombo. Aiutata da un cameriere sedicenne, Francesca lo pulisce e me lo sporziona a tavola. I pomodorini brillano. Le olive sono snocciolate e tagliate a rondelline. C’è un rosmarino di grande qualità ed un ottimo olio. Che non si vede ma si sente. Un piatto molto saporito, forte nei condimenti. Fatto alla perfezione. E mentre dico a Francesca, dandoci finalmente del tu, (comincio ad avere l’aspetto della vecchia signora?) che non desidero un dolce ma solo di essere stupita da qualche altra sua scoperta in fatto di vini (raffinata la ragazza!) Marco esce dalla cucina. Con Marco, mamma Pina. Che parla di suo figlio e della nuora con gli occhi lucidi della mamma innamorata. Intanto Francesca porta un vino di visciole. Difficile trovarlo buono. Ma questo è così denso che sembra uno cherry. Intenso. Buonissimo. Ahimè ha solo quella bottiglia portata da un produttore e, molto carina, ha aspettato di assaggiarlo con me. «Compralo!», le dico. «Speriamo che abbia bottiglie…» Motivo per cui non vi svelo il nome.

Ed ora via libera al passato. Ai ricordi di allievo e alle emozioni. E a quanto ha assorbito come una spugna di mare ogni piccolo gesto dei grandi a cui ha avuto al fortuna di stare accanto. Lo riconosco nella cottura dei pomodorini accanto al rombo e dal loro taglio verticale. Ora parte fimalmente l’estate per il Bistrò. La sera saranno 50 posti dentro e 50 fuori. Sarà possibile mangiare sia pesce che carne. Ricette ricercate, curate nei minimi particolari. Eccellenti paste ripiene dove sono sicura c’è la mano di mamma Pina. L’amore che unisce questa famiglia è contagioso. Poi arriva Alessandro che va subito in cucina a prendere un gelato. È finita la scuola e può stare accanto al papà. Stessi occhi buoni. Francesca ora mi saluta. Va da Ginevra che ha appena nove mesi. Finisco in chiacchiere e visciole con Marco, mamma Pina e Alessandro, questa serata, da ripetere prima possibile. Per prenotare chiamate Francesca allo 071731914. Cucina vini Bistrò è a Camerano in via Carlo Maratti 51-53. L’insegna fuori è luminosa non potete non vederla.

Carla Latini

Pazienza, passione e rispetto: così i vini di Maria Pia Castelli diventano gioielli

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La Maria Pia Castelli è una piccola realtà delle basse Marche, a Monte Urano. Maria Pia vive in simbiosi con le sue vigne, le sue botti e le sue eccellenti bottiglie. Una festa mi ha dato l’opportunità, graditissima, di stare con lei e “i suoi”. “I suoi” in tutti i sensi: il marito, i figli, i vini.

L’azienda nasce nel 1998, data dell’inizio delle prime sperimentazioni. L’idea è stata quella di produrre vini di alta qualità utilizzando vitigni autoctoni, nel pieno rispetto dei cicli naturali e del territorio. Per questi motivi la produzione è molto limitata. Negli 8 ettari di vigneto di proprietà si raccolgono mediamente 35/40 quintali di uve per ettaro, che portano ad una produzione di circa 25mila bottiglie annue. Maria Pia entra nello specifico ed io, donna legata forte forte alla terra, bevo tutto d’un fiato il suo racconto: la lavorazione è naturale (gli unici trattamenti sono quelli tradizionali di rame e zolfo). Lo scopo è quello di avere un frutto sano, forte e concentrato. Ciò comporta un’attenzione maniacale in tutte le lavorazioni in vigna proprio perché si rispetta la natura e i suoi cicli. Ci vuole tanta pazienza, passione e rispetto. Aspetti che continuano in cantina con i vini che nascono da questo lavoro necessitano di tempi di affinamento piuttosto lunghi, durante i quali si interviene il meno possibile.Vengono fatte aggiunte insignificanti di solforosa, chiarifiche naturali o malolattica svolta naturalmente in botte. La cantina è un piccolo gioiello.

Il percorso inizia dalle vigne e finisce con l’assaggio. Maria Pia ci raccoglie intorno ad un tavolo e bicchieri uguali da chardonnay si avvicinano a naso e bocca.

Cominciamo con Stella Flora, un Marche Bianco Igt realizzato con pecorino 50%, passerina 30%, trebbiano 10% e malvasia di Candia 10%. Uno dei migliori bianchi d’Italia. Vino di un colore giallo oro antico, rapisce già ad un primo esame visivo; quello che segue a livello olfattivo è un’esplosione di sensazioni che variano di minuto in minuto man mano che il vino si apre nel calice, spaziando dall’erbaceo al fruttato grazie ad una complessità unica. In bocca si caratterizza soprattutto per sapidità ed acidità e note quasi tanniche . Servito a temperatura di cantina o leggermente fresco si accompagna a pesci salsati ma soprattutto a formaggi e carni bianche.E non lo dico io ma le guide a dimostrazione che, anche nelle basse Marche, si possono produrre bianchi di altissima qualità con vitigni autoctoni.

Ed ora questa degustazione ve la fate con me. Poi, quando vorrete, Maria Pia vi aspetta.

Continuiamo con Sant’Isidoro, un Marche Rosato Igt 50% Montepulciano e 50% Sangiovese. Ottenuto con la tecnica del salasso dei due rossi prodotti, affina per circa 10 mesi nelle vasche di fermentazione (rispettivamente acciaio per il salasso del Sangiovese e legno per quello del Montepulciano), per poi essere messo in massa per circa un mese; la permanenza in bottiglia è dai 3 ai 6 mesi; è stato definito “rosso vestito di rosa” date le sue caratteristiche di complessità sia al naso (frutti rossi molto evidenti) sia in bocca dove si distingue per una struttura decisamente importante. Oltre ad essere inserito nella lista dei più importanti rosati italiani e premiato con le 3 Rose dalla Guida del Gambero Rosso il suo successo è testimoniato dalle prenotazioni che ormai arrivano di anno in anno prima ancora dell’imbottigliamento.

Ora tocca ad Orano, un Marche Rosso Igt Sangiovese in purezza, che fermenta per circa 15 giorni in cisterne d’acciaio, prima di passare all’affinamento di 12 mesi in piccole botti di rovere di secondo passaggio; successivamente gode di ulteriori 12 mesi di affinamento in bottiglia prima della messa in commercio. Vino con molti frutti rossi al naso, piacevole in bocca e poco alcolico, si accompagna facilmente a tutti i menu di carne, dall’antipasto al secondo piatto; non sorprende che sia il più bevuto e conosciuto dei quattro. Premiato come uno dei Top Hundred, I Migliori 100 Vini d’Italia dalla guida Il Golosario del Club di Papillon di Paolo Massobrio nel 2005.

Finiamo con Erasmo Castelli, un Marche Rosso Igt Montepulciano in purezza. Fermentazione di circa 25 giorni a contatto con le bucce in tini di legno di rovere francese, affina per 24 mesi in botti nuove e per almeno altri 24 mesi in bottiglia. Grande complessità al naso, si caratterizza per un palato importante supportato da un tannino molto evidente ma levigato ed elegante e da una lunghissima persistenza gusto-olfattiva finale. Si accompagna bene alle carni rosse, brasati, fino ai formaggi stagionati. Si tratta del vino più importante prodotto dall’azienda di Maria Pia, recentemente premiato con i 3 Bicchieri dalla guida Slow Food – Gambero Rosso.

Se volete fare un percorso come il mio basta chiamare in azienda (0734-841774) o scrivere a info@maripiacastelli.it.

Carla Latini

 

 

 

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